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Pippo Ciorra

Nuove distopie.

L'architettura come infrastruttura del mondo e il conflitto tra pratica e teoria.

— 18 Mar, 2020 —
Interviste
Pippo Ciorra
Pippo Ciorra

Pippo Ciorra è architetto, critico, docente e dal 2009 senior curator del Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma (MAXXI) con cui ha allestito molte mostre in Italia e all’estero. È membro del CICA (Comitato Internazionale dei Critici di Architettura), adviser per il premio “Medaglia d’oro dell’architettura italiana” della Triennale di Milano e curatore della versione italiana di YAP, programma internazionale del MoMA PS1 per la promozione dei giovani architetti. È professore di progettazione e teoria presso la SAAD di Ascoli Piceno, direttore del programma di dottorato internazionale Villard d’Honnecourt presso lo IUAV di Venezia, collabora con giornali e riviste, è autore di molti saggi e pubblicazioni ed è stato membro del comitato editoriale di "Casabella" dal 1996 al 2012. Segue anche i programmi Future Architecture Platform (FAP) e Demanio Marittimo, il festival che si tiene ogni anno il terzo venerdì di luglio sulla spiaggia di Senigallia. / in conversazione con Sara Fortunati, direttore del Circolo del Design, ed Elisabetta Donati de Conti, autrice e curatrice.


Elisabetta: Quale pensi sarà l'impatto di questo periodo? E cosa è cambiato nel ruolo dei progettisti oggi?

Pippo: È difficile valutare in questo momento e secondo me questa condizione sarà un po' più lunga di quanto tutti si aspettano. In generale sono molto impressionato dal fatto che la mia generazione si era immaginata situazioni di questo tipo in forma di distopie alla Blade Runner, con guerre e assenza di luce. Invece la realtà che stiamo vedendo ora assomiglia alle fotografie di Paolo Monti del piano di Bologna degli anni '60: città storiche bellissime, vuote, deserte. Direi che stiamo vedendo il caos calmo e sarebbe un perfetto libro di Philip Dick.

Io in verità sono un po' spaventato dall'idea di dover cambiare per sempre delle abitudini: a me il museo piace perché le persone vengono fisicamente lì e le incontriamo, non vorrei dovermi rassegnare a questa versione online del MAXXI, anche se questa condizione ci pone il problema di un cambiamento verso una strada che per qualche aspetto sarà senza ritorno.

Una delle cose che ho notato è l'incredibile importanza degli spazi domestici, mentre fino a un mese fa i miei studenti battevano sul fatto che nelle case non c'è più il salotto perché il tempo lo si passa fuori e non c'è più lo studio perché a lavorare si va da Starbucks. Adesso questa dinamica non funziona, quindi tutto quello che succede dentro lo spazio domestico probabilmente verrà riconsiderato, ma in un'ottica nuova perché oggi le case sono connesse al mondo attraverso le infrastrutture digitali.



Sara: Se il cambiamento un po' ti spaventa nell'idea della fruizione museale, pensi che nella dimensione abitativa e relazionale lascerà dei segni anche in futuro?

Pippo: Sul piano personale non particolarmente perché giro molto per l'Italia ma lavoro anche tanto da casa – tant'è che lontano dalle lunghe riunioni al museo o all'università si è quasi più produttivi. In generale penso che in parte sì, rimarranno dei segni di questa esperienza che potremo leggere in futuro, ma vorrei anche fare il bastian contrario: ho fiducia nella capacità dell'uomo di dimenticare - quando ci si fa male giocando a pallone da ragazzi non si gioca la partita successiva con meno passione. Quindi il mio augurio è quello che si possa tornare a una vita sociale così come la abbiamo sempre immaginata e desiderata. Parallelamente credo che questa condizione sarà uno stimolo a ripensare il linguaggio e la strumentazione di una vita sociale non in presenza, perché l'interesse del pubblico per tutto quello che succede sui social dopo un po' scema; forse in questa fase troveremo delle chiavi alternative.


Sara: L'ambiente domestico è uno di quelli in cui si riversa di più questo cambiamento secondo te?

Pippo: Vivo e lavoro in una casa del 1200 e gli spazi sono sempre gli stessi, mentre quella che è cambiata è l'infrastruttura, allora credo sia su questo tema di rapporto spazio-infrastruttura che si potrebbe fare una riflessione più accurata. La mia generazione forse ha la colpa di essersi stufata di studiare le case e per vent'anni con i miei studenti ho affrontato gli argomenti più disparati tranne quello della residenza – pompe di benzina, musei, autogrill. Questa esperienza potrebbe invece condurci verso un ripensamento della casa in funzione della socialità e della capacità lavorativa.

Dalla finestra di Pippo Ciorra
Dalla finestra di Pippo Ciorra

Elisabetta: Nelle grandi città quando si parla di verde pubblico o di spazi pubblici più ibridi, si calcolano generalmente i metri quadri per abitante. Ad esempio a New York sono molto orgogliosi di avere Central Park, questa grandissima riserva di verde, ma nella realtà delle cose – ora lo stiamo sperimentando – questi metri quadri non sono a disposizione in maniera assoluta. Pensi che in questo senso le città rappresentino una contemporaneità che non c'è più?

Pippo: È per questo che tante famiglie abitano nello sprawl, per vivere nella villetta residenziale con il giardinetto, esattamente quel fenomeno che per secoli gli urbanisti di sinistra ci hanno insegnato essere sbagliato. Si potrebbe ripensare un rapporto interno-esterno, ma non penso che siamo in una fase della nostra storia in cui abbiamo gli strumenti radicali nell'approccio al disegno delle città, facciamo piccoli interventi e lievi modificazioni. Forse questo ripensamento interesserà quei paesi in cui in pochi anni si costruiscono città intere. Anche premettere che ci sarà bisogno di uno spazio all'aperto per ognuno di noi perché non possiamo accedere alle aree pubbliche, potrebbe essere un po' angoscioso e darebbe un po' troppa ragione ad Agamben. In questo momento la casa e il suo rapporto con l'esterno stimolano sia riflessioni scontate sia altre più curiose e interessanti.


Sara: Anche noi proviamo a cogliere delle tracce di modifica rispetto ad alcune barriere che si sono parzialmente rotte nelle vite quotidiane di tutti i noi, dalla spesa online al conciliare casa, lavoro e famiglia. Ci sono stati dei piccoli crash culturali.

Elisabetta: E anche nelle vite di istituzioni come i musei e le università. Che problemi si stanno ponendo sul fronte dell'istruzione?

Pippo: Negli anni '90 a un certo punto il Louvre mise la sua collezione online e si temette che nessuno sarebbe più andato a visitarlo; ovviamente le collezioni online non hanno mai funzionato, a meno di cercare una cosa molto specifica. Funziona benissimo invece l'archivio digitale, perché per esempio posso andare sul sito del CCA a cercare un disegno di Cedric Price - così oltretutto si attiva un meccanismo inverso perché dopo aver studiato il disegno mi viene ancora più voglia di andarlo a vedere di persona. Quello che bisogna fare è usare questo periodo per elaborare dei progetti che usano un medium diverso, non fisico, che non possono sostituire l'attività del museo ma che la integrano con iniziative diverse. Per quanto riguarda invece l'università finora mi è capitato di fare online solo alcuni esami, mentre in questi giorni comincio il laboratorio.

Pippo Ciorra fa revisione a un suo studente.
Pippo Ciorra fa revisione a un suo studente.

Elisabetta: Si può insegnare a progettare a distanza?

Pippo: Io non ci credo! Per me questa è una rivoluzione prossemica – speriamo temporanea. E poi non posso mandare i miei studenti a visitare i luoghi, che nelle facoltà di architettura, anche se molti pensano di no, è ancora fondamentale. Quindi il tema del mio laboratorio di quest'anno sarà un concorso per un ipotetico museo Le Corbusier e farò le revisioni online. Io però amo ancora fare le revisioni dal vivo, trovo che ci sia un certo erotismo del progetto, un eros che si rischia di perdere se sostituito con altro. Ovviamente faremo del nostro meglio e stiamo tutti imparando a usare piattaforme di ogni tipo: le metteremo a frutto.



Elisabetta: Dal momento che tutti i giorni incontri ragazzi molto giovani e dal momento che non tutti quelli che studiano architettura o design riusciranno purtroppo ad esercitare la professione, pensi che alcuni potranno inventarsi delle nuove figure lavorative? Ci sono finestre di opportunità che si stanno aprendo e di cui i progettisti potrebbero approfittare?

Pippo: Negli ultimi due anni il numero di studenti che fa domanda per entrare nelle scuole di architettura è diminuito di più del 50%, un drop non indifferente, e molti studenti che non si iscrivono più ad architettura si iscrivono ai corsi di design. All'UNICAM la proporzione si è totalmente invertita: prima avevamo molti più studenti di architettura e meno studenti di design e adesso abbiamo meno studenti di architettura e una cospicua presenza di studenti di design. Io credo che questo dipenda dal fatto che le persone oggi vedono l'architettura ancora come quella disciplina riservata a chi vuole costruire un edificio, progettare un quartiere o ristrutturarti casa, mentre il corso di design è visto come l'ingresso in questa nuova nebulosa di professioni che una condizione come quella attuale esalta moltissimo. Mentre l'architettura digitale alla second life non si può fare perché dopo un po' annoia, perlomeno la preparazione che si ottiene oggi nelle scuole di design sembra garantire un accesso più ampio a questa zona ibrida tra il digitale e l'analogico. Questa apertura totale della parola design oggi è interessante, mentre la malattia dell'architettura è che tutti vorrebbero fare i curatori, una parola, al contrario, che nella mia sfera lavorativa cerco di usare poco: per me fare mostre è uno strumento per produrre teoria e per fare ricerca. La figura del curatore si è espansa in maniera incontrollata e forse ora sarà in crisi perché in questo momento i curatori sono paralizzati – anche questo è abbastanza interessante.

Elisabetta: Ritieni che la figura del curatore possa definirsi parassitaria?

Pippo: Certo che è parassitaria. Con l'età mi è venuta una certa ammirazione per il modo di lavorare più tipico dei curatori di arte, che spariscono dietro l'artista, attivano con lui una sorta di transfert e intessono esposizioni monografiche, ma continuo a pensare che questa modalità non possa funzionare in architettura. I curatori di architettura che lavorano in questo modo, come molti che stimo, finiscono per collaborare con persone che tendono a comportarsi comunque come artisti. L'architettura come infrastruttura del mondo invece secondo me va governata con un pensiero teorico e con degli obiettivi precisi. La risposta immediata alla questione formativa è quindi che la preparazione in architettura è un po' sterile in questo senso, perché poi in una situazione come questa rende ancora più evidente la sua poca flessibilità. Quanti progetti e finanziamenti salteranno in questi giorni? L'architetto si ritrova così paralizzato e vincolato e si rifugia nell'idea del curatore, però ovviamente non tutti possono essere curatori, sennò non rimane niente da curare.

Ogni anno mettiamo in piedi un progetto che si chiama FAP, Future Architecture Platform, per il quale ci arrivano circa quattrocento proposte di giovani ambiziosi creativi; il tema iniziale è sempre l'architettura ma guardando il materiale che arriva si comprende benissimo questa confusione della disciplina e il desiderio di allargarsi. I progettisti possono vivere di questo solo se glielo consentono i musei, le biennali e le triennali. Se ogni anno un certo meccanismo produce n curatori, ci si dovrà inventare n biennali in giro per il mondo per dare loro lavoro. Ecco perché il designer ha una varietà di possibilità di approccio al mondo professionale oggi molto più ampia, se non altro perché c'è tutto il mondo digitale in più, oggi esploso in maniera enorme.



Sara: La sfida per gli architetti rimarrà comunque analogica? Credo che faccia parte della natura profonda della professione interessarsi alle nuove forme dell'abitare gli spazi, che può darsi che in parte andranno ripensati.

Pippo: C'è anche un lato oscuro in tutto questo. Intanto il matrimonio consumato fino in fondo tra l'architettura e il digitale, pensiamo al sogno dell'architettura parametrica, ha rappresentato quasi una sconfitta e la filosofia digitale alla Schumacher possono permettersi di applicarla ai progetti solo i paesi emergenti, le tigri emergenti. In secondo luogo il fatto che il web si sia trasformato in una piattaforma di scambio economico molto attiva, mette a rischio la professione perché è pieno di siti dove mandare la pianta di casa e mettere in palio mille euro per chi propone la soluzione migliore. Scavalca qualsiasi organizzazione professionale, qualsiasi garanzia di preparazione, qualsiasi laurea: una interessantissima specie di democratizzazione suicida della professione.

Quindi questi aspetti possono andare bene se della qualità delle cose e della qualità dello spazio in fondo non ce ne importa granché. Se decidiamo che il bello della nostra vita sta nell'entrare a casa, trovare tutto in ordine, essere ben organizzati con delle infrastrutture che funzionano, allora quello che accade fuori non ci interessa: questo è il caos che piaceva alla mia generazione ma ci siamo accorti che probabilmente è abbastanza improduttivo. L'idea dello spazio esterno come junk assoluto è la stessa idea di cui siamo vittime ora perché in questo momento lo spazio esterno è il nemico.

Elisabetta: In molte città i luoghi di aggregazione e intrattenimento non commerciale sono stati allontanati nelle periferie e una delle nuove funzioni dei musei era proprio quella di portare nei loro spazi interni una parte della vita sociale della città. Ora, con il digitale improvviso, queste attività moriranno? Oppure si ramificheranno in modi inaspettati?

Pippo: Alcune iniziative online che stanno nascendo in questo contesto possono servire a cominciare a costruire dei criteri di senso all'interno del discorso: è chiaro che da questa condizione si evincono delle potenzialità come il ragionamento sulla casa o il ragionamento sul rapporto tra interno ed esterno. D'altra parte è facile vedere anche i rischi di questo processo e tutte queste novità serviranno ad attrezzarci meglio nei confronti di botte, come questa, agli spazi pubblici e culturali.


Sara: Tra l'altro, anche se è vero quello che diciamo, in culture come la nostra la piazza è sempre stata e continuerà ad essere un luogo di aggregazione importantissimo.

Pippo: Ognuno si fa la sua città, una città fatta di un centro commerciale, di una spiaggia, di un cinema, di un posto dove andare a spasso. Ma è fatta anche di un pezzo di città storica, perché quando si ha voglia di inalare un po' di identità si va nelle piazze italiane, che diventano però un semplice elemento del menu; avendo già perso quel ruolo centrale che avevano nella costruzione di una cultura dello spazio.

L'approccio alla cultura dello spazio degli architetti del secolo scorso era invece radicalmente diverso: se si dava a Giorgio Grassi l'incarico per progettare la cuccia del cane, lui progettava un pezzo di città e procedeva così in maniera ossessiva e drammatica. Oggi l'architetto italiano se viene incaricato di fare un oggetto, lo disegna senza pensare che sta commettendo un peccato mortale. Mi capita che mi chiedano consiglio per nomi di giovani docenti che sanno fare disegno urbano come fanno gli italiani, ma mi tocca rispondere che non ce ne sono più, perché abbiamo perso questa modalità di pensiero nella nostra pratica contemporanea. I maestri hanno fatto un uso un po' perverso di questo modo di operare, guadagnandosi spesso l'odio di tutta la popolazione, ma all'estremo opposto i nuovi pensano all'architettura come alla produzione di uno splendido film su una distopia.