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Ugo La Pietra

Stagioni.

Consumismo e consumismo globale: la storia.

— 01 Apr, 2020 —
Interviste
Ugo La Pietra, foto di Aurelia-Raffo, courtesy archivio Ugo La Pietra Milano
Ugo La Pietra, foto di Aurelia-Raffo, courtesy archivio Ugo La Pietra Milano

Ugo La Pietra, artista, architetto, teorico e designer, mi ha raggiunto al telefono un mercoledì mattina, dopo che gli avevo timidamente scritto per sapere se volesse condividere con noi alcune considerazioni sul periodo che stiamo trascorrendo – lui, ritirato tra i colli liguri, io, tra quelli friulani. Mi racconta di aver vissuto tutte le stagioni del consumismo più sfrenato, di quando già nel 1973 Ettore Sottsass, influenzato degli architetti radicali, ha diretto la sezione design della Triennale imponendo agli espositori di non portare oggetti, e così La Pietra ha prodotto un film, La Grande Occasione. Mi racconta del suo percorso lungo e faticoso all'interno delle aree artigiane di tradizione, di come il design aveva cancellato la cultura del fare – quella che con Dalisi o con Superstudio ha cercato di recuperare negli anni '80 -, delle migliaia di oggetti e delle centinaia di mostre prodotte per esaltare i territori, da Abitare il Tempo ad Abitare con Arte, fino a quelle sul genius loci. Di come oggi, a causa della pandemia, riflettiamo così tanto sulla globalizzazione dei mercati, quello stesso fenomeno – o meglio, atteggiamento culturale e produttivo – che ha provato a mettere in continua discussione durante la sua carriera, contro la distruzione dei territori, contro il massacro di intere popolazioni animali, contro gli sfruttamenti ittici. Mi racconta dei suoi viaggi in Italia per scoprire l'alabastro di Volterra, la pietra leccese, il marmo di Carrara, la pietra Lavagna, le cave a cielo aperto del Salento e mi racconta dei suoi ultimi libri, Fatto ad Arte. Né Arte né Design e Argomenti per un Dizionario del Design. Della dipendenza dagli altri mercati che ci aspetterà dopo questa fase dolorosa, di come tutto ritorna drammaticamente e di come il tentativo di risveglio sarà ancora una volta soffocato dal desiderio di abbuffarci di tanto e di tutto. E dopo una così ricca chiacchierata, ha condiviso con noi questa sua riflessione:

«Da ultraottantenne, prima che il terrore mi blocchi la mente e mi congeli il cervello, voglio ricordare quando, dopo il primo grande fenomeno di consumismo degli anni sessanta - che si esaurì con la contestazione e con la presa di coscienza che la società non poteva continuare a crescere in modo lineare (il 1972 ne diede un esempio con la crisi energetica) - molti dicevano: “non si può continuare così!”; bisognava cercare un'altra strada, la società faceva mea culpa, molti artisti e architetti divennero radicali e tentarono strade alternative. Ma il sacrificio, l'austerità e l'arte per il sociale (si veda la biennale del ‘78) non erano “sopportabili” e così passammo con disinvoltura al secondo grande fenomeno di consumismo collettivo: quello degli anni ottanta.

Grande euforia ed entusiasmo, grande voglia di consumare, nel senso dell'uso delle risorse da parte di pochi furbi e privilegiati.

Anche questa fase ci portò presto alla presa di coscienza che non si poteva andare avanti così, con i politici arraffoni e corrotti, con il debito pubblico che ci ha fino a ieri impoverito con tasse esagerate... tutti dicevano: “non si può continuare così!”

Bisognava cercare un'altra strada, la società faceva mea culpa, artisti, politici, intellettuali parlavano di austerità, onestà, fine della corruzione.

Ma gli uomini onesti, l’attenzione al territorio e alle sue risorse (ci ho provato con tutte le mostre che ho promosso negli anni ottanta e novanta sul genius loci), non erano “sopportabili” e così, con grande entusiasmo e con l'aiuto del berlusconismo, siamo arrivati al terzo grande fenomeno di consumismo: quello degli anni duemila.

Da diverso tempo si festeggiava questa epoca del grande consumo, resa possibile dell'apertura dei grandi mercati globali, soprattutto sostenuti dalla dittatura cinese, che ha raggiunto in breve tempo il controllo di quasi tutto il mercato.

Mercato sempre più esasperato e diffuso (le vie della seta!), mercato che ha sfruttato in modo esagerato tutte le risorse (colture intensive, depennamento delle risorse ittiche, allevamenti intensivi) e moltiplicato in modo esponenziale trasporti di persone e merci.

Finalmente qualcuno stava capendo cos'è la globalizzazione unita al grande consumo: un cocktail micidiale, che aveva superato di gran lunga il primo consumismo degli anni sessanta e iI secondo consumismo degli anni ottanta.

Milano, la nostra capitale morale, festeggiava con entusiasmo ed euforia il grande consumo: miliardari cinesi alimentavano con il loro shopping quotidiano il mercato del lusso; tutte le scuole di design, moda, arte, comunicazione (pubbliche ma soprattutto private), si riempivano di studenti che pagavano quote d'iscrizione sempre più alte; il mercato cinese fioriva nell'unica città del mondo che aveva trasformato un'ampia zona del centro in un mercato all'ingrosso: stavano imparando a usare e approfittare della globalizzazione delle persone e delle merci.

Oggi dobbiamo imparare a convivere anche con un altro pesante fenomeno di globalizzazione che ci appare come un “fenomeno distruttivo”.

Molti stanno già pensando al dopo: “dopo non faremo più gli stessi errori, non si può più continuare così!”.

Noi vecchi l'abbiamo già sentita due volte questa frase: “tutto deve cambiare!”

Per alcuni anni, tante persone di buona volontà ci proveranno, ma dopo la catastrofe del virus saremo più poveri di prima e dopo un po' ci stancheremo di una vita fatta di rinunce.

Saranno probabilmente sempre i cinesi che sapranno alimentare un nuovo grande mercato globale, sfruttando anche le risorse umane e materiali dell'Africa, e ci verranno ad aiutare.

Vi ricordate gli aiuti degli Stati Uniti che ci salvarono dalla fame nel dopoguerra?

Ci porteranno tante cose (non buone) che ci sembreranno buone, a tal punto da illuderci di poter entrare nella quarta edizione del consumismo, e nella seconda del consumismo globale (malattie comprese).»