WELCOME TO THE POST-ANALOG CONDITION*

Stefano Caggiano

Costruire il silenzio.

Immaginarsi una nuova responsabilità storica, tra generazione alfa e bombe a orologeria.

— 10 Apr, 2020 —
Interviste
Stefano Caggiano
Stefano Caggiano

Stefano Caggiano è un filosofo e critico del design, che pone l'enfasi sui linguaggi. É program leader del dipartimento di Industrial Design dell'Istituto Marangoni di Milano e senior researcher presso la società di consulenza NextAtlas, per la quale si concentra sulla previsione di nuovi trend emergenti nella scena visiva contemporanea, tra design, moda e arte. Ha scritto libri e articoli sul tema del progetto ed è contributor della rivista "Interni", dove scrive delle tendenze estetiche che si sviluppano nel design del prodotto e dell'arredo, in riferimento all'evoluzione dei contesti culturali, sociali e tecnologici. Collabora con le aziende in qualità di esperto in posizionamento semantico per il design degli oggetti, degli elementi e dei complementi d'arredo, contribuendo a definire strategie improntate al design management. / in conversazione con Sara Fortunati, direttore del Circolo del Design, ed Elisabetta Donati de Conti, autrice e curatrice.

Elisabetta: Come descriveresti l'evoluzione in cui siamo immersi in questo momento?

Stefano: Ho l'impressione che non ci sia stata una grande evoluzione dall'inizio della quarantena ad oggi. Un riflesso iniziale è stato quello di dire “resistiamo in apnea per poi ripartire subito” e non c'è stata una messa in discussione per capire come mai abbiamo sbattuto contro questo muro. Quindi ora mi chiedo: siamo sicuri che dopo aver sbattuto vogliamo riprendere la corsa nella stessa direzione, alla stessa velocità? Stiamo aspettando che ci diano il semaforo verde per ripartire allo stesso modo, ma così questo tempo di quarantena diventa tempo sprecato. È un'occasione mancata.


Elisabetta: In cosa consiste l'occasione mancata? Ci sono strumenti che potevamo usare meglio?

Stefano: Usiamo tantissimi strumenti perché c'è stata un'impennata sulle piattaforme digitali per fare tutto il possibile per non perdere un secondo. L'occasione mancata io la leggo anche in questo: abbiamo una relazione tossica, come cittadini, con il nostro benessere e, come professionisti del settore creativo – facendo innanzitutto autocritica -, con l'essere social e con l'esigenza di essere connessi, di comunicare, produrre, fare. L'occasione che stiamo mancando è staccarci da quello che abbiamo sempre fatto e provare a guardarci da fuori. Quando mai si avrà nuovamente l'opportunità di prendere delle settimane staccati da quello che si fa continuamente a ritmo frenetico? Invece di approfittare di questo spazio di vuoto che si è creato, l'intervallo perduto di Gillo Dorfles, siamo ossessionati dal semaforo. L'occasione potrebbe anche essere quella di fare meglio per il futuro, ma è necessario pensare anche al prima, alle ragioni che ci hanno portato qui e al nostro atteggiamento aggressivo nei confronti dell'ecosistema.

Fotografia di petali rosa del parco sotto casa di Stefano Caggiano
Fotografia di petali rosa del parco sotto casa di Stefano Caggiano

Sara: Nella condizione emergenziale il mondo del design sta dando delle risposte di tipo “tattico” sull'immediato; che tipo di ruolo più strategico può avere invece il design? Si può progettare, o sviluppare un pensiero a lungo termine, con questo livello di incertezza?

Stefano: È come una nebbia che ancora non si è alzata e finché c'è questa incertezza, provare a pensare un modo diverso di progettare sulla media-lunga distanza non è semplice. Noi italiani siamo portati a considerare la cultura del progetto come parte del pensiero umanistico – almeno io mi riconosco in questo approccio - e per questa ragione un ripensamento dell'agire progettuale dovrebbe partire da un ripensamento più profondo. Se vogliamo cercare di avere un respiro lungo, un pensiero più ampio dovrebbe cominciare ad unire i puntini: ci sono le isole di plastica, gli ecosistemi aggrediti, i virus che fanno i salti di specie e ci saranno le generazioni future. Mettendo insieme queste informazioni vediamo che la “fine del mondo” per come lo conosciamo non sarà un evento traumatico, ma una costellazione di eventi che hanno già iniziato ad accadere. Pensare strategicamente vuol dire quindi provare a guardare le cose dall'alto così da vedere più lontano nel futuro, ma anche più lontano nel passato. Dovremo cominciare a costruire un paradigma di riferimento mettendo insieme gli ingredienti che già conosciamo, ma che rimangono ancora in qualche modo scollegati. Forse questo potrà aiutare a sollevare la nebbia, l'incertezza e a ripartire meglio.



Elisabetta: Vista la tua esperienza nell'ambito della formazione, che ruolo pensi abbia la scuola nel cercare di formare un nuovo pensiero strategico?

Stefano: Lo spazio per esplorare delle ipotesi alternative a quelle immediatamente applicabili non è molto neanche nell'ambito della formazione e ci vuole uno sforzo notevole per salvare alcuni momenti da dedicare al pensiero più ampio sul design.

Gli studenti universitari di oggi - generazione Z più o meno - sono cresciuti con i dispositivi digitali, mentre noi, adottivi digitali, abbiamo il ricordo del mondo analogico e possiamo immaginare questa fase come post-analogica. Abbiamo visto in prima persona analogico e digitale convergere e fondersi fino ad essere ora perfettamente integrati. Questa integrazione che per noi è un punto di arrivo, per loro è un punto di partenza e non hanno memoria di un mondo diverso da questo. Tuttavia, essendo cresciuti in questo contesto, hanno anche sviluppato una socialità più debole rispetto alle generazioni precedenti, perché i dispositivi digitali ci tengono connessi costantemente, ma sempre un po' a distanza, lasciando la possibilità di tenersi al riparo. Così sono nati fenomeni come quello degli haters o del ghosting, conseguenze della non completamente avvenuta maturazione sociale dell'utente in questa interazione ovattata. Temo che la quarantena accentuerà questo problema, perché non credo che in fondo questi ragazzi abbiano fretta di tornare nel mondo reale: sono già abituati a interagire così.

Il vero problema di ragionare sul lungo periodo quindi, quando si fa attività didattica con questa generazione, risiede proprio nella risposta a questo: gli studenti sono consapevoli di questi problemi ma fanno fatica a immaginare una possibile soluzione – un aspetto che secondo me non si è notato abbastanza. Sentono il problema e lo vivono, sapendo per esempio di essere dipendenti dalla tecnologia e di avere delle difficoltà relazionali dovute dall'essere nati in questo contesto che li ha tenuti al riparo dai venti forti della socialità, e sono quindi cresciuti più fragili. Nella formazione il vero problema di immaginare ed esplorare alternative sta anche nella difficoltà di mantenere un dialogo costruttivo con quest' audience.


Elisabetta: In un tuo testo su Interni hai affermato che non può esistere progetto senza una visione, perché serve un orizzonte di convinzioni e di riferimenti per darsi una spinta verso il futuro – di nuovo il tema del progettare nell'incertezza. Secondo te quali brecce si possono aprire però adesso?

Stefano: Il fatto di individuare una breccia fa immaginare che ci sia una sorta di guscio da rompere per entrare. Sicuramente nel mondo post-analogico è venuta meno la dimensione dell'approfondimento e i nativi digitali sentono la mancanza di questo, ma non l'hanno mai conosciuta e quindi hanno una nostalgia, ma non sanno di cosa. Anche quando gliela si spiega e racconta, suona come nella canzone di Guccini in cui il vecchio descrive a un bambino com'era il paesaggio in un tempo passato e il bambino crede sia una favola, perché non l'ha mai visto con i suoi occhi. Quando noi raccontiamo insistentemente a questi ragazzi la realtà concreta contrapposta al digitale, loro ascoltano incuriositi ma quello dell'approfondimento verticale è un mondo che non hanno conosciuto. Immaginare di trovare una breccia non è facile ma sicuramente bisogna cercare di farlo e io credo che la nostra generazione sia quella più adatta: noi siamo la generazione ponte, un piede nell'analogico e uno nel digitale. Dopo di noi non ci sarà più una generazione del genere che ha conosciuto entrambi i mondi, mentre quella precedente conosceva solo quello analogico. Questa è la nostra responsabilità storica, ma è davvero difficile capire come comportarsi e non riesco a dare una ricetta; forse possiamo usare questo limbo per immaginarcene una. Credo solo che dovremmo fare leva su quello che i ragazzi sentono, perché al di sotto degli strumenti che scegliamo, digitali o analogici, quello che sentono loro non è molto diverso da quello che hanno sentito altre generazioni, perché siamo esseri umani e il range di sentimenti è lo stesso per tutti.

"Costruire il silenzio" ovvero "nessun fiocco di neve è mai caduto nel posto sbagliato". Una foto che ha fatto Stefano Caggiano lo scorso dicembre sul monte Grigna settentrionale, il "Grignone", durante un'uscita di corsa in montagna – quello che gli manca di più.
"Costruire il silenzio" ovvero "nessun fiocco di neve è mai caduto nel posto sbagliato". Una foto che ha fatto Stefano Caggiano lo scorso dicembre sul monte Grigna settentrionale, il "Grignone", durante un'uscita di corsa in montagna – quello che gli manca di più.

Elisabetta: D'altronde anche lo scopo di questa conversazione – come di tante altre in questo periodo - non è dare risposte, ma raccogliere un po' di quelle nuvole che fanno la nebbia, per poi capire com’è fatta questa nebbia.

Stefano: Questa è una bella metafora di metafora, perché in effetti questa nebbia di incertezza nasce dalle troppe "clouds", dalle troppe nuvole di informazioni. È un'opacità che scaturisce da troppi layer di trasparenza uno sopra l'altro e alla fine le nuvole diventano nebbia. Il problema di chi è nato nella nebbia e non conosce altro che la nebbia, è immaginare un mondo senza questa coltre, immaginare un percorso chiaro e limpido mentre si ha la testa immersa in un ecosistema di informazioni eccessivo, sovraccarico. Siamo in cerca di una limpidezza che sembra quasi materializzarsi nei canali di Venezia con l'acqua divenuta trasparente e nei cieli dell'India attraverso i quali si vedono le vette dell'Himalaya. Ma effettivamente quando si costruisce una narrazione, affinché sia efficace, deve avere un riscontro percettivo agli occhi dell'utente, se invece rimane astratta non attecchisce. Queste immagini chiare hanno un impatto su di noi molto più profondo dei dati, astratti e difficili da digerire.



Sara: C'è chi dice che questa sarà la prima di una serie di esperienze simili che ci aspettano in futuro.

Stefano: Tra la deforestazione e lo scioglimento del permafrost, la comunità scientifica è abbastanza unanime nel dire che ci troveremo sempre di più ad avere a che fare con virus a cui non siamo preparati. Intorno a noi ci sono tante bombe a orologeria che non sono state piazzate casualmente, ma che sono strutturalmente intrinseche del nostro sistema – economico, produttivo e di consumo – e siamo poi noi a distribuire queste bombe.


Sara: Chi in questo momento è nella posizione di prendere decisioni che potrebbero tenere in considerazione queste bombe a orologeria in maniera sistemica e reagire in maniera organica, spesso appartiene alla generazione prima della nostra ed è figlio del sistema che ha generato questa condizione; le generazioni più giovani al contrario non hanno ancora gli strumenti reali per essere degli attori di cambiamento. Sono d'accordo con il tuo punto di vista, ma se da un lato la responsabilità è essere un ponte culturale, c'è dall'altro lato una responsabilità di azione?

Stefano: Ho la sensazione che la generazione Z, essendo la prima vera generazione di nativi digitali, sia vittima di questa posizione. Sono leggermente più ottimista su quello che potrà fare la generazione successiva, che in qualche modo avrà fatto tesoro di quello che la Z sente adesso. Le generazioni ormai sono molto compresse e la nostra farà in tempo ad agire anche su quella post-Z, chissà magari li chiameranno “Alfa” – e naturalmente lo decideranno gli esperti di marketing. Credo che il nostro agire a livello di produttori, forse, di cultura dovrà guardare anche a loro. Il problema di questo ponte potrebbe essere averlo immaginato troppo corto, mentre il vero ponte potrebbe essere tra l'analogico e il post-Z. Forse così sarà più facile entrare in sintonia perché saranno loro a sentire in maniera più accesa l'urgenza di trovare soluzioni. E uno dei modi per aiutarli a trovarle, il compito ovvero di noi che abbiamo i piedi in tutti e due i mondi, è costruire una narrazione più solida e più coerente del passato-presente. Come dicevamo, la fine del mondo sembra consistere in tante piccole fini che però rimangono disorganizzate; servirebbe dare unione e individuare un filo conduttore tra questi eventi, per dare forma ad uno scenario comune che sia chiaro, così diventerà chiaro anche cosa dovranno fare le generazioni nuove, gli Z ma soprattutto gli “Alfa”. Alfa è la prima lettera dell'alfabeto greco quindi potrebbe essere anche il bel simbolo di un nuovo inizio.


Elisabetta: C'è qualche parola in particolare su cui ti sei soffermato in queste settimane a riflettere?

Stefano: Non ho in mente una parola specifica, ma mi piacerebbe evocare un testo silenzioso con un tono di voce più basso. Il silenzio è anche non aggredire l'ecosistema e la foresta, il silenzio è non produrre tutti questi oggetti che poi buttiamo continuamente. Forse la parola è silenzio, ma non un silenzio sovrumano come diceva Leopardi, perché quello è il silenzio cosmico, piuttosto un silenzio preumano, ecco. Siamo assuefatti ad una comunicazione molto rumorosa, fatta per addizione, ma anche il silenzio serve a modulare la comunicazione ed è lo sfondo che fa risaltare il messaggio. Noi viviamo come in un quadro pieno di figure senza sfondo, dove è impossibile percepire un'immagine. Quindi non vorrei dire che dovremmo recuperare il silenzio, ma costruire un po' di silenzio e, una volta costruito, provare a custodirlo. Costruire silenzio anziché costruire rumore.