WELCOME TO THE POST-ANALOG CONDITION*

Angela Rui

Osservare ai lati

Il design per mostrare la complessità e tradurre un nuovo sguardo sulla conoscenza

— 20 Apr, 2020 —
Interviste
Angela Rui, fotografia di Francesco Barion
Angela Rui, fotografia di Francesco Barion

Angela Rui, curatrice e ricercatrice, si occupa di teoria e critica del progetto. Dopo il dottorato in Exhibition Design presso il Politecnico di Milano, è stata design editor della rivista "Abitare" e ha curato il progetto editoriale di "Icon Design" fino al 2017. Ha recentemente collaborato come ricercatrice presso l'Het Nieuwe Instituut di Rotterdam per il progetto dell'accademia temporanea transdisciplinare Neuhaus e ha curato: il padiglione olandese I See That I See What You Don't See alla XXII Triennale di Milano nel 2019, la 25esima edizione di BIO  la biennale di design di Ljubljana nel 2017 – insieme al libro Faraway, So Close – e l'edizione del 2015 di Operæ, independent design fair a Torino. Ha insegnato al Politecnico di Milano, al Master di Interior Design di NABA e al Social Design Master della Design Academy di Eindhoven. Prossimamente curerà una mostra dal titolo Aquaria al MAAT di Lisbona e sarà docente al master in Geo-Design alla DAE. / in conversazione con Sara Fortunati, direttore del Circolo del Design, ed Elisabetta Donati de Conti, autrice e curatrice.

Elisabetta: Come sta cambiando il modo in cui il design sta guardando a sé stesso in questo momento?

Angela: Per me il design è una forma di pratica critica, in grado di mettere in discussione le modalità convenzionali di abitare o di sperimentare il mondo che, per quanto ci è stato tramandato, si basano sul controllo umano e sullo sfruttamento di altri esseri, attraverso una visione occidentale e forme di conoscenza che risalgono a uno sguardo illuminista. Quello che invece oggi si può raccontare è che non c'è modo di racchiudere o di classificare il mondo in formule ridotte e quello che potrebbero fare i designer è intervenire in campi che necessitano della loro capacità di traduzione - ho iniziato ad utilizzare il termine “traduttori” al posto di “designer” durante la formulazione della curatela della biennale di design di Ljubljana presso il MAO nel 2017. In questa occasione i designer si sono confrontati con altri attori: dalla filosofa-criminologa Renata Salecl– ex moglie di Slavoj Žižek – a uno sportivo che aveva attraversato l'oceano in solitaria, da un cuoco che fa ricerca sulle catene alimentari, fino allo scienziato, per fare in modo che potessero uscire dalla loro comfort zone e per metterli a disposizione di un pensiero che si fonda su ambiti e dati attraverso a una conoscenza che al designer non appartiene, ma con la quale si deve confrontare. Forse il design oggi guarda a sé stesso proprio con questa modalità critica, constatando che dovrebbe formulare nuove domande invece di provare a formulare delle risposte, ribaltando la modalità di atteggiamento rispetto al progetto che abbiamo ereditato.

Non è la prima volta in cui ci si interroga a questo proposito, ma quello che cambia oggi è che siamo in una fase che potrebbe essere vista, per assurdo, come un nuovo rinascimento che invece di mettere al centro l'uomo potrebbe mettere al centro la natura. Quindi nella formulazione delle nuove domande che il design pone a sé stesso, dovrebbe per esempio chiedersi come guardiamo, a che cosa guardiamo, da dove vediamo, qual è la nostra prospettiva, cosa limita la nostra visione, con chi vogliamo guardare e per chi vogliamo guardare. C'è qualcuno che viene accecato dal modo in cui guardiamo? Qualcuno che indossa i paraocchi e non è in grado di vedere? - tutte domande tratte da un saggio, Situated Knowledges (all'interno del libro The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective), della fine degli anni '80 della mitica Donna Haraway, che si porta dietro un pensiero ecofemminista che oggi riceve grandissima attenzione, soprattutto in ambito scientifico, perché introduce l'ipotesi di aprirsi a una visione multispecie.

Elisabetta: Per BIO 25 hai lavorato anche sul tema della campagna – affrontato in Slovenia che già di per sé è un luogo abbastanza peculiare, sia per la sua storia sia per la sua conformazione idrogeologica. Oggi che c'è un abisso così profondo tra chi sta passando questo momento in città e chi lo sta passando in campagna, pensi che ci sarà una rottura nella rivalutazione degli spazi che abitiamo – interni ed esterni in senso lato?

Angela: L'idea di interno oggi riverbera in qualche modo attraverso gli schermi dei nostri computer, che ci danno l'illusione di essere l'unica finestra verso l'esterno, ma in realtà si ripercuotono all'interno di un altro interno, e così mi è venuta in mente l'immagine degli acquari. Siamo tutti dentro acquari tecnologici, ma ci rendiamo conto che non sono una soluzione perché abbiamo un corpo che necessita di stimoli, che ha bisogno di muoversi, di respirare l'aria che sta al di fuori, che ha bisogno di contatto con l'ambiente circostante e che quindi non può essere confinato nelle mura domestiche.

In Slovenia la natura è estremamente potente e le condizioni sono molto diverse tra loro: da una rete incredibile di caverne a una piccola costa di mare, dai fiumi alle montagne. È un paese piccolo incastonato tra tanti altri paesi ed è sempre stato percepito come una terra di mezzo che in qualche modo, rispetto ad altri paesi della ex Jugoslavia, ha goduto del contatto tra nord e sud, tra est e ovest. Uno degli episodi della biennale era Countryside Reloaded, che analizzava da un lato la situazione di una campagna dove non c'è quasi più la presenza umana – anche se basta vedere come oggi manchi chi raccoglie frutta e verdura per comprendere quanto l'uomo sia presente – e dall'altro un'immagine globale della campagna inserita in un contesto locale. Il tessuto sociale si è rarefatto nel tempo a causa dell'apertura dei mercati internazionali e un tour organizzato dal duo di designer austriaci mischer'traxler ai confini con l'Ungheria guardava proprio al fallimento che la globalizzazione ha provocato nella dimensione locale più lontana dalle città. Un piccolissimo negozio di alimentari, che aveva chiuso soccombendo alla nascita dei centri commerciali di zona, è stato riaperto (lo è ancora) ed è diventato un centro per la comunità. Durante il tour si collezionavano alcune erbe insieme ad un ricercatore ed un cuoco che venivano poi utilizzate nella preparazione di un pranzo collettivo. Questi esempi raccontano che l'intero intento era quello di mettere insieme condizioni molto distanti per far capire che il modo in cui guardiamo al mondo, quindi anche al mondo del progetto, è condizionato da il momento in cui ci si trova, mentre sovrapporre storie diverse, anche nel tempo, aiuta a scoprire altre prospettive spogliate della propria esperienza personale e a capire se alcune dinamiche vengono accelerate dal presente.



Elisabetta. Ci sono delle dinamiche accelerate del presente che stai leggendo ora, da un tuo punto di vista personale?

Angela: Nel 2019, durante Broken Nature, ho curato il padiglione olandese nel quale parlavamo del paese come un territorio cartesiano, partendo dal presupposto che ciò che viene progettato si può sempre riprogettare secondo codici diversi, a patto di prendersi la libertà di rimetterlo in discussione. Il tema si è sviluppato attorno all'osservazione dell'inquinamento luminoso in Lombardia e in Olanda, dal momento che entrambe ne soffrono molto, e ha posto l'accento su come tutti siamo toccati da questa dimensione iperluminosa: in una condizione basata sull'idea di crescita continua, di iper sviluppo in un mondo che è in performance costante, il ciclo circadiano degli animali è completamente sballato, così come il nostro. La società non si ferma mai, a partire dalla produzione di fiori, frutta e verdura all'interno di serre che controllano la luce, fino alle nostre vite nelle quali, attraverso i device tecnologici, siamo sempre disponibili e non c'è più separazione tra vita privata e vita collettiva, tra lavoro e leisure. Questa dinamica porta ad un esaurimento del mondo, sia in termini psicologici sia in termini di risorse e a partire da questo grande paradigma abbiamo cercato di capire cosa abbiamo perso. Così, invece di comunicare i dati sulla condizione luminosa del mondo, ci siamo interrogati sul potere del buio. Questo di provare a guardare lateralmente una condizione data per scontata è un metodo che ritrovo in tutti i progetti che seguo, perché cambiando posizione si riesce ad osservare un problema identificando effetti diversi anche al di fuori del contesto. Ora sto lavorando a un progetto che si occupa di analizzare l'idea stessa del modo in cui costruiamo la cultura, una mostra al MAAT di Lisbona intitolata Aquaria, su come gli acquari, in quanto dispositivi, organizzano e rappresentano la natura marina, dove la vastità del mare viene ridotta a un'architettura chiusa. Quando la natura diventa cultura – e nel caso degli acquari è chiaro che il mare viene tradotto attraverso l'ambiente che lo rappresenta - si attuano delle semplificazioni per le quali l'immagine che viene veicolata è filtrata e non reale. A sua volta questa riflessione rappresenta un concetto più vasto, ovvero che noi operiamo, consapevolmente o inconsapevolmente, un addomesticamento del mondo e delle specie. Con questo tentativo espositivo proviamo a mettere in discussione un modello razionalista che si basa sulla classificazione o l'organizzazione dell'informazione attraverso il dominio della scienza. Il regime climatico che stiamo vivendo è invece completamente nuovo e permetterebbe di definire un nuovo approccio alla conoscenza in quanto soggetto, cioè come valore ontologico: i costrutti che dividono la cultura dalla natura non sembrano più convincenti.



Elisabetta: Questi lavori che parlano di contemporaneità, di cultura e di saperi in modi diversi da quelli più assodati, potrebbero segnare l'inizio di un cambio di paradigma che il design può provare a innescare?

Sara: È il design quella disciplina che potrebbe essere in grado di individuare un modo di collaborare con la scienza diverso da quello del totale abbandono al dato?

Angela: Attraverso una visione olistica che prevede un’inclusività di voci diverse, ci si può inserire in una governance che ha a che fare con la costruzione e con la produzione. La prima cosa che abbiamo notato tutti, ed io per prima, è la necessità di interloquire con altri e di fidarsi del campo di competenza di ognuno. Quindi nel momento in cui si sostiene una tesi bisogna farlo, non solo attraverso i dati, ma anche attraverso le prospettive diverse, riuscendo comunque a parlare in modo chiaro e semplificato. Il design fa questo: traduce concetti di cui si deve fare anche garante, che deve studiare ed esprimere in una forma più accessibile, non solo per le piattaforme scientifiche, ma anche per quelle culturali. Il design può mostrare la complessità sotto forme che possono creare consapevolezza e conoscenza.


Sara: Questa capacità di mediazione e di traduzione che è propria della disciplina del design - che come dici tu sente l'urgenza di costruire questo mondo e non solo di rappresentarlo – potrebbe essere più presente in questo momento, in cui dovremmo immaginare degli atti concreti di ricostruzione e ripensare le nostre relazioni di umanità? Potrebbe essere il momento per forzare il ruolo più sociale del design?

Angela: Il design, come l'architettura, viene spesso chiamato in causa nel momento in cui si è già arrivati a valle, con quindi ormai pochi strumenti a disposizione per agire. Un caso che ho avuto il piacere di approfondire – anche se è un esempio che arriva dal mondo dell'arte contemporanea – e che fa capire come un'istituzione può operare in questo senso, è quello della TBA21 Academy, con alle spalle una storia di garanti di cultura molto lunga e una sede all'Ocean Space di Venezia. TBA21 ha iniziato il suo percorso organizzando spedizioni di due settimane in barca con gruppi multidisciplinari e un'interconnessione di saperi forzata in questo modo, in balia del mare, ha fatto funzionare questi esperimenti in modo molto efficace, tant'è che ora l'istituzione artistica è anche riconosciuta all'interno del dibattito scientifico. Questo esempio potrebbe voler dire che bisogna essere radicali a tal punto da rivedere in parte il modo in cui le istituzioni operano, perché solo così riescono agilmente ad entrare in un tessuto che ha a che fare con la governance stessa.



Elisabetta: In questo contesto qual è l'obiettivo della formazione nel provare a formare un pensiero radicale, non tanto sul singolo, quanto piuttosto come corpo d'azione?

Angela: Il design è parte di ciò che definiamo cultura e ha un suo ambito di conoscenza. Se partiamo dal presupposto che in questo momento la cultura condivide i propri confini con quelli di altre conoscenze, allora la cultura ha la capacità di immaginare nuove forme di conoscenza per quello che già esiste ma che ha bisogno di essere tradotto. Il design può operare connessioni inaspettate e istituire formule di decodificazione di nuove estetiche che stanno tra l'analitico e il rituale, quindi di esplorazione di nuovi linguaggi e di nuovi vocabolari, che si possono muovere tra questi vettori di per sé non comunicanti. Possiamo formulare queste nuove narrative solamente adottando conoscenze che non sono proprie della disciplina del progetto, ma agendo come connettori e traduttori. La didattica è fondamentale perché le scuole di pensiero si formano attorno a delle discussioni scaturite da lavori specifici – penso al lavoro di Studio Formafantasma, che in questo senso sta rendendo visibile un metodo di ricerca del design che si sta dimostrando estremamente valido. Quindi quello che forse manca in Italia, tornando al caso specifico, è un investimento sulla ricerca e sulla possibilità per il design di non limitarsi ad un esercizio cosmetico del mondo.

Dalla finestra di Angela Rui alle 6 di mattina
Dalla finestra di Angela Rui alle 6 di mattina

Sara: Le generazioni di studenti con cui sei quotidianamente in contatto, e che sono quelle che affronteranno ancora più di noi le sfide che ci troviamo davanti, secondo te quanto sono più preparate, più disposte, più aperte, più capaci di accogliere questo mondo?

Angela: Quella degli studenti di oggi è innanzitutto una generazione nata nella crisi e questo per loro è uno stato naturale. In più, mentre noi abbiamo ereditato forme di conoscenza verticale, loro sono dei surfisti e mettono insieme più informazioni inaspettate, facendo però poi più fatica a discuterne in maniera analitica. Nei momenti di collettività che si riesce ad attivare insieme, gli studenti trovano i loro momenti di espressione migliore e, dal momento che sentono la presenza dell'autorità in maniera diversa da come lo facevamo noi, si sentono più liberi nella proposizione delle loro idee, nella costruzione di immaginari, e nell'essere più sfacciati nel veicolare le proprie visioni. Il ruolo del docente è quello di accompagnarli in questo percorso e di aiutarli a fare collegamenti mettendo a disposizione il proprio tempo.

Un altro compito del docente è tuttavia anche quello di mettere gli studenti continuamente di fronte a prospettive diverse e di riformulare un vocabolario insieme, considerando condizioni sempre più estese di quelle che tendiamo a tenere a mente – anche in termini geografici. Il grande esercizio nella didattica è quindi sempre quello di allargare gli orizzonti e di ritornare alle domande iniziali, ai modi ovvero di guardare le cose. Il design oggi non offre risposte, lo farà, ma deve innanzitutto allenarsi a formulare nuove domande, quelle che possono scardinare il modo in cui affrontiamo e guardiamo il mondo.



Sara: In questo momento mancano però degli appigli nell'immaginario, dalla grande alla piccola scala, che ci aiuteranno a rivederci. Quali saranno le sfide?

Angela: Il grande interrogativo è: a cosa possiamo rinunciare tutti? A che cosa rinunceremo? Non dal punto di vista degli oggetti o di potere d'acquisto, ma nel senso di un bene in senso lato che va distribuito. Significa che dobbiamo rivedere un po' le nostre vite e, per esempio, abbiamo visto che si potrebbe rallentare. Per fare questo però ci vuole un coordinamento globale e il vero fallimento è quello legato all'idea di confine: un agente invisibile, ultraterrestre, ultraempatico, che è il virus, ci ha fatto capire che non può esserci separazione tra nazioni o tra continenti, e che facciamo tutti parte di un grande ecosistema. La vera sfida sarà quella di immaginare un coordinamento più centralizzato, in cui le policy dovranno riguardare tutti allo stesso modo; quando ci sarà una crisi dovremo occuparcene tutti insieme.


Elisabetta: Anche questo tema forse riguarda il nostro allenamento, come società, a guardare oltre le contingenze e a formulare pensieri interconnessi. Le istituzioni di cultura che ruolo potranno avere?

Angela: Quello che mi spaventa nell'idea che la cultura faccia da ponte è la forma di riduzione della conoscenza che si rischia di attuare. Se ipotizziamo che la scienza sposi anche altri saperi, come la conoscenza indigena o la conoscenza diretta della natura, contribuendone all'ampliamento, la semplificazione di un messaggio fa perdere anche il focus sul resto, cioè su una dimensione immaginifica che invece è altrettanto importante. Un'altra cosa su cui riflettere è su quali saranno i nuovi beni sociali di cui avremo bisogno, perché la cultura, l'istruzione, l'ambiente, la biodiversità sono i beni comuni globali oggi, insieme alla società e al potere della collettività. Nel cambiamento dovuto alla globalizzazione o al neoliberismo, cosa avevamo dimenticato? Cosa possiamo ripescare da questa sorta di fallimento esistenziale? Una decelerazione è fattibile e praticabile, rinunciando però a qualcosa. Ecco, chissà a cosa si può rinunciare. Forse il design si può interrogare su queste grandi domande.