WELCOME TO THE POST-ANALOG CONDITION*

Beatrice Leanza

Rapid Response.

Facilitare un cambio sistemico mantenendo il focus su un orizzonte lontano sarà compito delle istituzioni culturali.

— 01 Apr, 2020 —
Interviste
Beatrice Leanza, credits Paulo Alexandre Coelho
Beatrice Leanza, credits Paulo Alexandre Coelho

Beatrice Leanza, critica e curatrice italiana con un background nell'arte contemporanea, ora è di stanza in Portogallo, dopo quasi vent'anni passati in Cina. Qui ha lavorato con Ai Weiwei nel suo spazio, il CAAW (China Art Archives and Warehouse), ha fondato lo studio-laboratorio BAO Atelier nel 2006 ed è stata direttore creativo della Beijing Design Week dal 2013 al 2016 – raccogliendo il testimone di Aric Chen. Nel 2018 è stata una delle co-fondatrici di B/Side Design, organizzazione internazionale che ha portato alla creazione del primo istituto indipendente di ricerca e design cinese, The Global School, dedicato al design thinking. Attualmente è membro del Design Trust Council Hong Kong e dall'autunno del 2019 è direttore esecutivo del MAAT, Museu de Arte, Arquitetura e Tecnologia di Lisbona. / in conversazione con Sara Fortunati, direttore del Circolo del Design, ed Elisabetta Donati de Conti, autrice e curatrice.

Sara: Il MAAT avrebbe dovuto iniziare con un nuovo corso di attività proprio in questi giorni. Come stanno andando le cose?

Beatrice: Dovevamo aprire il 27 marzo ed è stata una sfortuna perché non siamo nella stessa situazione di un museo che chiude le porte e racconta i contenuti che già erano dentro, si trattava di un nuovo progetto che partiva da zero e per il quale attendevamo molti ospiti. Questo complica le cose anche a livello di comunicazione, ma abbiamo lanciato il nuovo sito e stiamo proponendo alcune novità che avevamo già messo in conto di proporre, solo che ora invece di farlo in un contesto di presenza fisica, lo dobbiamo fare in maniera digitale. Stiamo anche rivelando poco a poco i dettagli del programma che abbiamo iniziato a preparare quando sono arrivata, sei mesi fa, senza però svelare troppo, nel senso che c'è un aspetto legato a quello che è in costruzione dentro il museo che dovrà essere vissuto nella realtà.

Sara: Temo che non sarà facile farsi un'idea di come evolverà la situazione, non solo nei fatti ma anche nella percezione, che cambia a una velocità impressionante.

Beatrice: Nelle ultime settimane c'è stato un dibattito denso su come le istituzioni private e pubbliche stiano presentando programmi digitali. Io sono un po' scettica riguardo alla corsa a mettere tutto online, nonostante io creda che qualsiasi istituzione abbia una forma di responsabilità nel mantenere viva la cultura nella quotidianità di tutti noi. Le tecnologie a modo loro sono limitate e niente può sostituire un'esperienza fisica: dato che le istituzioni sono entità anche fisiche, questo spostamento online è un placebo. Oggi viviamo una condizione di precarietà universale ma l'istituzione di cultura - museo o centro culturale che sia - deve avere un ruolo di accompagnamento del presente e non è un semplice mezzo di comunicazione.


Elisabetta: Secondo te è in pericolo la relazione tra cittadini, spazi pubblici e luoghi dell'identità di una comunità?

Beatrice: Non utilizzerei la parola pericolo, perché la messa in discussione di queste relazioni è un argomento presente da molti anni, attorno al quale ci si è chiesti se il forum pubblico, già soggetto a erosione, possa sopravvivere - indipendentemente dalla natura dello spazio. Si tratta ad ogni modo di una riflessione che avremmo toccato anche con il nuovo programma del MAAT: prima della pandemia c'era un vivo e attivo discorso sul se fosse necessario o meno ridefinire la raison d'être dei musei. Il dibatto si era acceso in seguito alla crisi che molte istituzioni, prima negli Stati Uniti e poi in Europa – specialmente in UK -, stavano attraversando. Ma una discussione che era molto fitta solo un anno fa, oggi non è più una priorità delle istituzioni, mentre tra gli operatori del settore sono rimaste le stesse domande. Quindi non trovo che la crisi di adesso ponga nuovi problemi, ma li acuisce e li porta in primo piano.

Sara: Leggi anche un'opportunità in questo senso?

Beatrice: Certamente, e non dobbiamo prenderla come un'opportunità volatile perché questo è il momento nel quale possiamo affrontare questo discorso collettivamente e renderlo continuativo. Per questo penso che le istituzioni e gli spazi della cultura dovrebbero tentare, specialmente ora, di mantenere un focus sull'orizzonte lontano e non su quello dell'immediatezza. L'elasticità che in molti stanno dimostrando in queste circostanze dovrebbe rimanere anche dopo, così ci si potrà aprire a questioni più ampie rispetto alla condizione contemporanea dello spazio civico.

Ho finito da poco di leggere un libro di politica economica che mi ha fatto riflettere proprio su queste tematiche universali, scritto da un'economista, Robert Shiller, e intitolato Narrative Economics: How Stories Go Viral and Drive Major Economic Events. Qui l'autore, vincitore di Premio Nobel, spiega in maniera quasi agghiacciante come le depressioni economiche che abbiamo affrontato nei passati due secoli si protraggano e si siano protratte - scientificamente parlando - come le epidemie, avendo cioè il medesimo bioritmo. Questo saggio parla proprio di queste narrative universali su cui continuiamo a tornare quando si presentano delle crisi economiche e delle nostre risposte come corpo sociale. Credo che quello di cui si parlava molto rispetto alle crisi che hanno vissuto in questi ultimi anni le istituzioni, si agganci a questo concetto se non addirittura ad una nuova narrativa che secondo me abbiamo fabbricato noi come popolo del 21esimo secolo: la narrativa dell'uno VS i più, dell'interesse personale VS il benessere collettivo, della divisione VS l'unità, e gli eventi degli ultimi anni lo provano - i climate strikes, il movimento metoo etc. Questa è una lettura molto ampia del fenomeno, però penso sia un dibattito che interessa le istituzioni di cultura perché sono loro a dover avere a che fare con il presente.


Elisabetta: Se, come dici, i problemi che erano già stati identificati sono stati acuiti ed esacerbati da questo evento scatenante, pensi che ora ci possa essere l'occasione di avere delle fondamenta più solide per costruire una nuova visione e per farsi comprendere meglio da un pubblico più vasto che ha sperimentato in maniera più immediata una certa condizione, o ti immagini che invece si creerà una certa confusione, se non altro iniziale?

Beatrice: Temo la seconda ipotesi, ma come ottimista vorrei credere e sperare che questo evento ci porti ad un risveglio collettivo. Non ho una risposta a questa domanda, ma proprio perché penso che sia una domanda che dovremmo porci tutti – anche perché la pandemia sta portando alla luce delle maniere molto diverse in cui culturalmente reagiamo a queste crisi collettive.


Sara: Secondo te queste circostanze porteranno a una ridefinizione del ruolo dei progettisti nel post-emergenza?

Beatrice: Potrebbe darsi, ma è una condizione subordinata ad un cambiamento sistemico a monte, un problema che si affronta un po' in ogni settore. Penso che nel mondo del progetto, e nel design concepito in senso allargato, ci sia un'intera filiera che dovrebbe cambiare. Le molte industrie che per rispondere alle ingenti domande di dispositivi medici hanno rivoluzionato la propria catena produttiva in tutto il mondo, hanno dimostrato che la rapidità dell'azione in seguito a necessità potrebbe essere una base per ripensare a come riattivare l'economia. Come esiste il rapid response prototyping, che ha accompagnato l'innovazione tecnologica degli ultimi trent'anni, così ci si potrebbe immaginare anche una sorta di rapid response financing: un mondo del nuovo millennio dove la sharing economy e la disruptive economy sono diventate imperanti. Potrebbe aver luogo un cambio sistemico dove i fondi, i venture capitals che di solito investono milioni nella next app o nella next digital experience, potrebbero concentrarsi su invenzioni e proposte di progetti in piccola o media scala, a supporto delle soluzioni per uscire da questa crisi. Quindi io credo che al giorno d'oggi abbiamo tutti gli strumenti per reagire davvero, sia nel piccolo villaggio che nelle grandi città, e attuare un riconfiguramento sistemico.


Elisabetta: Qual è la tua opinione rispetto agli eventi? Le fiere, i festival, le biennali e gli altri appuntamenti culturali non solo mantengono vitale l'economia del settore creativo, ma anche quella di un certo turismo, e fanno perno sulla creazione di una comunità internazionale in presenza. Dopo la tua esperienza con la design-week di Pechino, quanto ingente pensi sarà l'impatto?

Beatrice: Anche queste esperienze erano parte di un grande sistema di sovraproduzione e sovraconsumo e credo che l'altra faccia della medaglia di questa situazione sia che per un po' vivremo in un clima di austerità. La grande tematica che spero emergerà, non solo per i grandi eventi ma anche per le istituzioni, è la nuova possibilità di disegnare i programmi per servire il contesto locale. Di nuovo, alla luce di tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione, credo che si possa ricostruire queste piattaforme senza la enorme macchina di consumo che le accompagna e che ovviamente si abbatte sull'ambiente e sulla società. Non significa che questi eventi dovrebbero cessare di esistere, ma che forse potrebbero cambiare per parlare di più al locale, per vivere del contesto locale e per ripensare la maniera in cui questo si collega al resto del mondo. Penso che sarà l'unica via per continuare e si tratta ancora una volta di riadattare e riconfigurare gli strumenti in una maniera più sostenibile e più realistica.

Elisabetta: Probabilmente sta cambiando rapidamente la platea di ascolto e chi opera in questo senso forse può trovare più pubblico a sostegno di quello che comunica. Anche capire come ricominciare diversamente sarà quindi un compito da delegare alle istituzioni culturali?

Beatrice: Se continuiamo a pensare all'istituzione come un luogo di “edutainment” allora non stiamo veramente facendo un lavoro onesto rispetto al ruolo culturale che ricopre. Non sarà il top down a salvarci, ma il bottom up, come sempre, e quindi se dobbiamo supportare, convogliare queste conversazioni del bottom up da qualche parte, penso che le istituzioni di cultura siano i luoghi giusti per poterlo fare. Nel pensare le proprie agende, le proprie funzioni e i propri obiettivi, è a queste realtà che sarà richiesto un adattamento: siamo davanti a un problema di risveglio della coscienza collettiva perché, è vero, siamo tutti colpiti in medesima misura e se questo può servire a rendere il messaggio più vocale e presente, all the better.