WELCOME TO THE POST-ANALOG CONDITION*

Giorgia Lupi

Realtà confutabile

Il design per rappresentare l'incertezza e i dati che non vediamo



— 08 Apr, 2020 —
Interviste
Giorgia Lupi, fotografia di Jake Chessum
Giorgia Lupi, fotografia di Jake Chessum

Giorgia Lupi, information designer, dopo la laurea in architettura e il dottorato di ricerca al Politecnico di Milano, ha fondato Accurat, studio di data design con sedi a Milano e New York. É autrice, insieme a Stefanie Posavec, di Dear Data, best seller frutto di uno scambio postale tra le due, e del libro interattivo Observe, Collect, Draw – A Visual Journal; il suo TED Talk sull'approccio umanistico ai dati ha superato il milione di visualizzazioni. La sua pratica si focalizza sul Data Humanism, e utilizza i dati per comprendere la nostra natura umana e gli aspetti della società, distillando le nostre esperienze personali; i suoi lavori sono stati esposti al MoMA, al Cooper Hewitt, allo Smithsonian Design Museum e il suo intervento con Accurat, The Room of Change, ha aperto la mostra Broken Nature alla Triennale di Milano. Dal 2018 è director's fellow all'MIT Media Lab di Boston e attualmente è partner dello studio newyorkese Pentagram. / in conversazione con Sara Fortunati, direttore del Circolo del Design, ed Elisabetta Donati de Conti, autrice e curatrice.


Sara: In un momento storico in cui da un lato siamo subissati di dati e dall'altro forse li andiamo a cercare come mai prima, rispetto al tuo modo di operare e al tuo pensiero sull’umanesimo dei dati, secondo te che cosa ci stiamo perdendo in termini di imperfezioni ed empatia?

Giorgia: Siamo passati dal non essere particolarmente interessati ai dati, se non in momenti speciali come durante le elezioni politiche, ad andarli a cercare tutte le sere. Non sappiamo però leggerli più di tanto, perché non sappiamo come sono collezionati, perché le fonti non riportano i dati che mancano, perché questi dati sono imperfetti e perché sono chiaramente il frutto di raccolte che si fanno di regione in regione, o di istituto in istituto, in maniera diversa. Sono dati che poi passano per modelli diversi per capire come dovrebbero essere aggregati. Da questo punto di vista è un momento senza precedenti e lo è anche, e soprattutto, per il bisogno che abbiamo di sentirci comunicare questi dati. Tuttavia credo che, come quando andiamo a cercare le news o dei contenuti su google, cerchiamo anche nei dati quello che vorremmo che ci dicessero: ci danno una parvenza di certezza e ai nostri occhi rendono vero ed inequivocabile qualcosa che non rappresenta la realtà. Anche la maniera in cui i dati vengono raffigurati ci induce a pensare che siano inconfutabili, mentre il design potrebbe proprio aiutare a rappresentare l'incertezza, le sfumature e i processi che portano un pallino rosso piccolo sulla mappa a diventare un grande cerchio. Quindi penso che sia un momento interessante per la comunicazione in generale e per me come designer, per capire quale potrà essere il mio data humanism 2.0.



Elisabetta: La tua impressione in queste settimane è che ci sia più attenzione rispetto al fare informazione, oltre che quantitativamente, anche qualitativamente?

Giorgia: L'Italia e gli Stati Uniti funzionano diversamente, perché qui l'informazione è veicolata dalla stampa e non da organi imparziali come la Protezione Civile, e questo va benissimo perché il New York Times per esempio è una fonte molto preziosa. É importante informare i cittadini, ma non penso nemmeno che debba essere una priorità condivisa rassicurare chi legge, così come non sono sicura che quello che legge l'articolo lungo che spiega come funzionano i modelli statistici sia un pubblico allargato. Una cosa positiva, a proposito degli scambi di informazione più in generale, è che per la prima volta in tutto il mondo, tutti i centri di ricerca, privati e pubblici, stanno cercando di risolvere lo stesso problema in maniera congiunta.


Elisabetta: Secondo te in questa moltitudine visiva, comunicativa e digitale, si sta aprendo un'occasione per i designer per trovare un nuovo ruolo, dei nuovi stimoli e anche a ripensare la loro professione? Ci sarà qualche episodio di creatività vulcanica attorno a questo fenomeno?

Giorgia: Le discipline del design sono tante e sono molto diverse tra loro. Un product designer, un information designer o un interaction designer ragionano in maniere diverse, per cui credo che anche le soluzioni che immaginano e i pensieri che elaborano in questo momento abbiano una miriade di sfumature. Per gli interaction designer e i service designer si aprirà una grandissima conversazione sugli spazi pubblici perché quando ci torneremo, che siano musei o spazi di retali, le dinamiche che prenderanno forma dopo questa grande crisi sono ancora delle incognite. Ormai sappiamo che questa è una crisi nel vero senso del termine e sappiamo anche che le crisi possono cambiare in maniera molto profonda abitudini e comportamenti. Come dovremo progettare per delle interazioni diverse? Ora non abbiamo risposte perché non sappiamo come sarà il nuovo scenario, però un interaction designer se lo chiede e si domanda già oggi se, per esempio, dopo aver progettato un'installazione interattiva le persone avranno veramente voglia di andare a toccare un iPad che altre persone hanno toccato. Magari tra anni sì ma nel breve periodo no, oppure viceversa. Sappiamo solo che da ora in poi, per un tempo lungo, le cose saranno diverse. Quindi anche se nessuno ha delle soluzioni pronte, credo comunque che il mondo del design si debba interrogare – e lo sta facendo – rispetto a come cambieranno i comportamenti quando torneremo tutti assieme negli spazi. Poi ci sono alcuni aspetti più temporanei che stanno cambiando la nostra vita grazie all'interazione digitale, e in questa fase rapida stiamo osservando utilizzi molto creativi di zoom, di instagram live o di alcune funzioni di real life che sono degli esperimenti davvero interessanti - sotto questo punto di vista il design ci sta aiutando a sopravvivere nel ripensamento di alcune di queste dinamiche.

Dalla finestra di casa di Giorgia Lupi a Brooklyn
Dalla finestra di casa di Giorgia Lupi a Brooklyn

Elisabetta: Hai colto qualche spunto rispetto all'ingegnarsi in nuovi modi di vivere o lavorare online?

Giorgia: Ho sempre lavorato tanto da remoto e ho potuto sperimentare tante modalità diverse. La vita online oggi sembra solo cercare di ricreare quello che ci dava piacere e che ci dava socialità in una vita analogica, ovviamente con dei contenuti di design. Ma a parte questi strumenti, penso che sia in atto un ripensamento della natura umana più allargato, perché se mancano le interazioni reali, la crisi umanitaria si fa così pesante da scavalcare qualsiasi azione proposta dall'interaction design – per esempio. Siamo passati da calendari mentali che ci davano entusiasmo per le prospettive future, a calendari mentali futuri completamente vuoti. Penso che sia un momento che fa riflettere più sul proprio contributo in quanto individui delle comunità, che non su quello che possiamo dare in quanto designer.



Sara: Se inizialmente le reazioni erano quelle di tenersi occupati con le attività che in genere non si ha mai tempo di fare, poi è subentrata una sensazione di approfondimento della propria condizione, come se l'isolamento portasse ognuno di noi a scavare sempre più a fondo. In questo “sotto” potrebbero esserci delle storie da raccontare che potranno essere delle riscoperte? C'è un nocciolo da cui, prima personalmente, e poi come società - quando torneremo ad essere una società - si ripartirà e ci si potrà raccontare? Potrà essere oggetto di progetto?

Giorgia: Secondo me sì e l'hai visualizzato perfettamente collocandolo sempre più “sotto”. Come se l'isolamento fosse una cipolla, credo che ci siano tanti strati diversi che vengono a galla, ma che la base sia comune a tutti, l'aver scoperto ovvero di essere capaci di vivere anche in un modo del quale prima non pensavamo di essere capaci. Sbattere la testa contro questo periodo ci porta a rivalutare i nostri bisogni primari, che fondamentalmente sono comunque risolti. Rivorremmo le nostre vite, sì, ma ora sappiamo anche che possiamo rinunciare ad alcune cose superflue e questa è una cosa che abbiamo scoperto sia come singoli individui, sia come società. Questo potrebbe essere uno strato intermedio di scoperta, ma penso che andando sempre più a fondo si possa trovare il significato della propria vita e del proprio ruolo nel mondo, che comunque già stavamo cercando. Quando ci vengono tolte tutte le cose che ci tenevano impegnati, che ci tenevano distratti, che ci proiettavano verso un futuro che era già pianificato, le domande che ci poniamo diventano di natura più universale. Ma questo cambio, sia a livello individuale sia a livello di società, porterà delle storie da raccontare, modi diversi di costruire relazioni e sicuramente poi porterà a progetti che verranno influenzati anche da questo. Forse una cosa che il mondo del progetto valuterà maggiormente è che in questa crisi siamo veramente tutti uguali e quindi anche il design inizierà a progettare, forse, per un'uguaglianza umanitaria di fondo più importante.


Elisabetta: Pensi che fino ad adesso il design si fosse parzialmente dimenticato dei bisogni della sfera emotiva degli individui e dei bisogni sociali delle città?

Giorgia: Il design in questa fase emergenziale sta aiutando a mettere in comunicazione dei bisogni immediati, mentre quelli emotivi probabilmente emergeranno più avanti. A New York il comune ha fatto per esempio una partnership con Headspace, la app di meditazione, che ora è gratis per tutti i newyorkers, confinati in appartamenti microscopici senza cucina, e questa è un'operazione di design. Anche autori o registi stanno rendendo fruibili gratuitamente tanti loro lavori, tramite piattaforme o interfacce che di fatto sono dei prodotti del design. Queste sono dinamiche che diamo un po' per scontate ma che possono realmente aiutare la comunità. Secondo me il design ha sempre preso in considerazione gli aspetti emotivi delle nostre vite, solo che ora questi aspetti emotivi sono più forti, più importanti e più pesanti.



Sara: Una componente importante e riconosciuta del lavoro che svolgi è quella di trovare un ponte per comunicare alcune informazioni scientifiche ad altre discipline. In questo momento in cui si mescolano tante idee nel ripensare il mondo che verrà, e forse con un'opportunità di ricevere maggiore ascolto perché le coscienze sono in qualche modo più sensibili e più preparate, di quali dati avresti voglia di occuparti?

Giorgia: Penso che per me questa sia l'opportunità di far capire alle persone quello che ho sempre sostenuto, ovvero quanto siano importanti i dati che non vediamo. Ancora più interessanti sono poi i dati che ancora non sono stati collezionati, perché quando qualcuno li raccoglierà sarà proprio per il bisogno di capire cosa raccontano; si inventerà un sistema per comprenderli e per restituirli e aggiungerà livelli qualitativi che sono fondamentali per la narrazione. Sono i dati a raccontare le storie. E i dati che ancora non sono in forma di dati sono quelli che mi interessano di più, mi interessa collezionarli e mi interessa presentarli. Al contrario non trovo stimolante trovarmi di fronte ad un data set che dovrei solo visualizzare, perché il modo in cui si costruisce il dato è tanto importante quanto il modo in cui lo si rappresenta. Ciò che poi mi appassiona di più come progettista è la nostra natura umana: perché reagiamo in certi modi, perché abbiamo emozioni di un certo tipo, come pensiamo, come ci relazioniamo, per cosa lottiamo, e questi dati sono quelli che costruiscono le nostre storie personali. Mi fa piacere vedere che in tanti stanno utilizzando il format di Dear Data per mapparsi e per capirsi in una maniera che è più semplice rispetto alla scrittura sul diario, quindi mi piacerebbe democratizzare ancora di più questo linguaggio che utilizza i dati personali per creare dei racconti. Sicuramente la ricerca scientifica è un tema che trovo davvero importante, ma mi interessano molto di più i dati che vengono dal basso, da domande che ci aiutano a capire noi stessi.


Elisabetta: Come ti piacerebbe che venisse chiamato, disegnato, rappresentato o descritto questo periodo?

Giorgia: Per tutti ci sarà un pre e un post coronavirus. Questo periodo sarà secondo me uno spartiacque nei nostri ricordi e nei racconti dei nostri aneddoti, un segno indelebile nella nostra percezione del tempo. Il modo in cui la pandemia sta cambiando le nostre vite è potente e i temi che penso rimarranno sono, in generale, il fatto di dover avere meno aspettative, di imparare ad avere a che fare con l'incertezza e di imparare ad avere a che fare con se stessi. E credo che qualsiasi forma prenderà il nostro futuro, porteremo dentro quello che stiamo imparando in questi mesi.