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Luca Molinari

Progettare la prossemica

I temi primari dell'architettura e il ruolo narrativo degli intellettuali

— 14 Apr, 2020 —
Interviste
Luca Molinari, fotografia di Alberto Cristofari
Luca Molinari, fotografia di Alberto Cristofari

Luca Molinari, architetto, autore e curatore, si occupa con il suo studio di consulenza, di mostre, allestimenti ed editoria per l’architettura. Ha ricoperto diversi incarichi nelle istituzioni e negli istituti di formazione; attualmente è professore associato presso l'Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli e membro del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e Paesaggistici. Oltre ad aver conseguito numerosi premi, è consulente editoriale di Skira per le collane di architettura e design e scrive per diverse testate nazionali ed internazionali. È autore di diversi libri, tra cui Le Case Che Siamo (Nottetempo, 2016) che nelle ultime settimane è diventato un bestseller: durante il lockdown Luca Molinari ha scritto un undicesimo capitolo autonomo che da ieri è scaricabile gratuitamente qui e che verrà incluso nel libro dalla prossima ristampa. / in conversazione con Sara Fortunati, direttore del Circolo del Design, ed Elisabetta Donati de Conti, autrice e curatrice.

Sara: Se svolgeremo sempre più dentro casa alcune delle attività che prima eravamo abituati a fare fuori, restringendo il nostro sguardo verso gli altri esseri umani e verso il nostro ambito relazionale, pensi che le nostre case si trasformeranno per riuscire ad includere quegli aspetti che in questo momento estremo sono relegati in una forma virtuale?

Luca: Penso che oggi stiamo parlando sotto l'effetto di un trauma e quindi i ragionamenti sono inevitabilmente contagiati da quarantacinque giorni di chiusura in casa. In questo momento il trauma, nell'accezione freudiana del termine, ci sta dando una sensazione del mondo della quale siamo amputati della metà, quella che vive fuori casa e che ora vive solo di ricordo o di desiderio. Quindi mi piacerebbe pensare che il nostro orizzonte non sia quello di una chiusura totale dentro una modalità iper-privatizzata, perché siamo animali sociali che hanno bisogno del contatto. Senza confronto, senza lo stimolo a relazionarci con persone o situazioni che non conosciamo, ci sarebbe un impoverimento straordinario dal punto di vista esistenziale, esperienziale, culturale, simbolico e antropologico. Siccome siamo animali curiosi, avremo bisogno di riportarci per strada.

La casa potrà subire delle variazioni, però le mura rimangono identiche e il mondo reale non permette di abbattere muri o raddoppiare i balconi. Sicuramente lavoreremo – e qui si entra nel mondo del design – su pareti a pacchetto in cui le funzioni si combineranno e si sovrapporranno, come nella casa londinese di Sir John Soane, in cui ogni parete è una libreria che si apre nascondendo altro ancora, o in quella a Hong Kong di Gary Chang, architetto che in 32 metri quadri, progettando ogni millimetro, ha inserito una vasca, una doccia, un cinema, la cucina e il letto a una piazza e mezza, ma nulla è a vista. Anche il tema dell'igiene e della sanificazione potrebbe diventare più rilevante, magari avremo degli ingressi-bagno in cui ci si lava le mani.

Tuttavia, in questi due mesi durante i quali si è parlato molto di case, ci si è concentrati su porte, finestre e balconi quindi credo che alcuni elementi su cui lavoreremo a livello privato e pubblico saranno le interfacce di relazione, cioè quegli spazi di confine in cui forse ci si sanificherà e ci si renderà sicuri. Potrebbe essere interessante immaginare come molti luoghi pubblici cominceranno a cingersi di aree di sicurezza per fare in modo che la comunità che si trova al loro interno si riconosca in una serie di principi di reciproco rispetto sanitario. Ma questa è una proiezione dettata dal momento in cui siamo.



Elisabetta: In una tua recente intervista hai paragonato le case a dei nuovi piccoli laboratori, fai da te improvvisati ma con maggiore coscienza delle proprie esigenze. Secondo te quando e come questa fase avrà invece delle ripercussioni sul luogo pubblico?

Luca: La prossemica sta cambiando in tempo reale e adesso viviamo in una prossemica della paura, perché quando si esce e si incrocia qualcuno, l'altro addirittura cammina in mezzo alla strada pur di non avvicinarsi. Il fattore dell'invisibilità è molto potente, quindi anche quando troveremo il vaccino, questo atteggiamento rimarrà perché ci sarà sempre un altro covid. Temo che entreremo in un loop lungo per il quale la nostra vita pubblica avverrà in termini di convivenza con questi fenomeni. Ancora non si riescono a intravedere degli elementi per leggere cosa accadrà in futuro, ma uno degli effetti sarà un rallentamento della nostra vita, per il semplice fatto che dovremo stare sempre di più in coda.

Studio di Luca Molinari
Studio di Luca Molinari

Sara: Oltre alla dimensione spaziale - che sta subendo delle modifiche nella percezione delle nostre vite in maniera accentuata - pensi che anche la dimensione del tempo cambierà il modo in cui viviamo, lavoriamo nelle città, ci relazioniamo, facciamo la spesa?

Luca: Per esempio, per fare le cose per le quali normalmente impiego cinque minuti il sabato mattina, prendere ovvero pane e giornale, ora ce ne metto in media quaranta. Proiettare questa dilatazione del tempo su una giornata di pseudo-normalità in cui dovremo mantenere le distanze, significherà avere ripercussioni su ogni attività della giornata. Non si potrà più, per esempio, pensare che tutti gli studenti entreranno a scuola allo stesso orario, ma a scaglioni, e così anche i genitori negli uffici. Le conseguenze minime su ogni gesto della nostra vita faranno emergere problemi più importanti nei prossimi tempi e capiremo che tipo di creatività sarà richiesta ai progettisti, anche perché le finanze saranno ridotte. Però questo è interessante e allora la mia domanda è: come garantire una distanza fisica sociale - che già di per sé è un concetto contraddittorio - abbattendo l'idea dell'allontanamento? Questa è una delle grandi sfide dei prossimi anni rispetto ai luoghi fisici e mentali: come lavorare per non produrre paura.



Sara: Come dici tu, è un'esplosione di contraddizioni. Non potrebbe essere quindi l'occasione, non solo per cercare delle soluzioni che rispondano ai problemi che stiamo mettendo a fuoco, ma per pensare ad una direzione diversa?

Luca: Lo è sicuramente ma è una scommessa di ecologia complessiva. Da un lato c'è la sfida del grande scenario e dall'altro la pressione dello scenario contingente e quando si subisce una grande pressione con poco tempo e poche risorse, raramente si hanno reazioni visionarie. Anche questa è una grande contraddizione: da una parte ci rendiamo conto che il mondo che abbiamo prodotto, di cui siamo degli agenti patogeni molto importanti, è un mondo che non funziona, ma dall'altra si tratta di un sovvertimento, di una rottura epistemologica - come la chiamano i filosofi - cioè una rottura di senso che comporta il fatto di dover elaborare cercando di farlo non unicamente sotto la pressione del trauma. Ho letto uno studio dell'Università di Harvard che conferma il fatto, come abbiamo tutti più o meno intuito, che c'è una relazione strettissima tra i fenomeni di contagio e il pm10 nell'atmosfera. Non è un caso a questo punto che il bresciano, il bergamasco, il milanese e il Piemonte, cioè le regioni con il più alto PIL e la più alta intensità produttiva, siano stati colpiti. Quindi la densità abitativa, la densità del particolato, la densità economica, sono causa della densità virale.

In un'intervista di questi giorni Richard Sennett ha spiegato poi che si rischia un'ulteriore forbice sociale tra chi si può permettere il lavoro smart a distanza e chi deve far muovere la città, coloro ovvero che non possono fare a meno di stare nel mondo perché devono consegnarci le cose, produrre le cose e che sono pagati male. Questo è un tema politico e sociale, perché lavorare sugli spazi di relazione vuol dire lavorare soprattutto sulle periferie e immaginare le residenze sociali costruendo spazi di mediazione che disinneschino quelle bombe di tensioni che possono inevitabilmente sorgere. Ma è anche tema progettuale: sarà necessario lavorare su forme abitative, spazi dei mercati, spazi dell'alimentazione e infrastrutture sociali in maniera diversa da come si fa ora. Questa è una prospettiva di revisione del nostro sistema molto importante, ma la soluzione non è rallentare perché è proprio chi già è più debole a non poterselo permettere.


Elisabetta: Uno degli spazi più promiscui che ci sono nelle nostre città è forse invece quello del museo, dove i visitatori sono invitati a muoversi liberamente, a prendersi il proprio tempo per fruire una vista o un testo. Questo è il settore in cui operi maggiormente e ora stai lavorando alle mostre temporanee per il museo dell'ADI. È cambiata tua visione a rispetto a queste tipologie di spazi?

Luca: Penso che per tante istituzioni verrà potenziato notevolmente il sistema di app e di interazioni digitali per preparare il pubblico alle visite, visto anche che verranno contingentati gli accessi. La piattaforma digitale diventa ancora più importante in questo caso perché è lo strumento attraverso cui il pubblico può costruire il progetto del proprio tempo in relazione agli altri. Il tema delle mostre temporanee invece è più delicato e mi chiedo se le normative che accompagneranno questi cambiamenti saranno disegnate dai medici, dagli architetti o da gruppi di lavoro misti, un passaggio importante che dovrà tenere in considerazione il buon senso e la civiltà della socialità.

Elisabetta: Pensi che potrà crescere una nuova professionalità in questo settore?

Luca: Credo che l'architetto sarà ancora più spinto a collaborare in team con persone non disciplinari e questa situazione imporrà ai creativi di mettersi a sistema con alcuni esperti. Non solo con un epidemiologo, ma anche con un antropologo o un sociologo e con professionisti che lavorano sul tema della distanza e della vicinanza in termini culturali, perché quando abbiamo paura, facciamo leva su ragionamenti profondi che sono di natura culturale, animale, familiare. Quindi meglio lavorare con uno psicologo, un antropologo e un virologo, piuttosto che con un altro architetto.


Sara: Sarà un'occasione da questo punto di vista?

Luca: Questa è un'occasione straordinaria e riporterà ancora di più l'architettura e il design nella realtà, dandogli un senso civico, politico e sociale molto concreto. Lavorare in questo modo diventerebbe un servizio collettivo molto potente, perché darebbe la possibilità di combinare la visionarietà con il sapere di altri professionisti che obbligano a canalizzare questa creatività in una direzione che abbia senso per tanti. Secondo me questa è una sfida epocale.


Elisabetta: È un tema di metodo, più che operativo?

Luca: Sì, ed è anche un tema di offerta di mercato: operare in questo modo verrà richiesto ai progettisti, oppure il progettista potrà andare dai suoi clienti, magari clienti pubblici, a proporre soluzioni alternative per essere pronti ad affrontare i problemi che emergeranno nei prossimi mesi. Questo vale più per gli spazi che per gli oggetti, però anche il designer può lavorare sulle pareti attrezzate come nell'esempio che facevamo all'inizio: il multiuso in una casa in cui saremo ancora più costretti diventerà intenso, ma in questo abbiamo una lunga tradizione e quindi è un tema di affinamento. Immagino però anche aziende di design e sanitarie che possono lavorare insieme, perché anche le imprese dovranno confrontarsi con competenze produttive diverse e questo potrebbe potenzialmente generare delle sinergie interessantissime. All'architettura invece è chiesto di lavorare su temi primari, su temi legati a spazi che non funzionano più rispetto al mondo in cui siamo immersi oggi.


Elisabetta: Nell'ultimo mese hai portato avanti su instagram alcune conversazioni con professionisti diversi, con punti di vista forti e differenti che hanno dialogato con il tuo. Che idea ti sei fatto, grazie a questi confronti, del pensiero condiviso? Che panorama c'è davanti a noi?

Luca: Questi video in parte sono un'affermazione d'identità: lavoriamo su contenuti forti e vogliamo continuare a portarli al pubblico, cercando persone diverse, poetiche e ambiziose dal punto di vista culturale, ma capaci anche di comunicare facilmente. La nostra sollecitazione è continuare in questa direzione, mescolando l'architettura con la scienza, la filosofia, la letteratura, l'arte e allargheremo ancora di più gli argomenti; per me diventa un'occasione per studiare. In qualche modo questi contenuti generano una comunità ampia, vasta, fluida in cui io guardo altri, altri guardano me, ci si scambia le idee, ci si confronta. C'è anche una disponibilità diversa - sarà che si è tutti in casa - a mettersi in discussione e a parlare di tematiche che diventano urgenti per tutti. Tutti stiamo cercando nella stessa direzione ed è un'occasione importante che ci aiuta a razionalizzare un pensiero e a renderlo più strategico in termini culturali. Credo sia anche la nostra responsabilità pubblica: se tutto quello che ho letto nei libri dietro alle mie spalle non riesco a portarlo oltre non serve a molto, quindi ripongo molta fiducia nel ruolo pubblico dell'intellettuale.



Sara: Sono d'accordo e credo che questo sia un momento di forte richiamo alla responsabilità degli intellettuali e dei soggetti che hanno l'obiettivo di sostenere la cultura, proprio perché siamo in un momento in cui tanti punti di riferimento vanno ridiscussi e il mondo della cultura ha l'obbligo di tenere alimentata una fiammella critica. Quando tutto questo sarà finito il rischio è che avvenga una corsa a una risposta tattica alle emergenze che si creeranno, mentre il dovere sarà mantenere certi spunti anche una volta superato il trauma.

Luca: Il ruolo critico dell'intellettuale è sempre stato fondamentale per dare un significato sociale ai fenomeni. L'intellettuale ha la capacità di attuare, avendo una cultura trasversale, una mediazione tra conoscenze diverse e di trasformare queste conoscenze in una narrazione accessibile a tanti. Questo è l'obiettivo: mediazione e narrazione. Il lavoro dell'intellettuale si rende allora ancora più utile e necessario, perché le soluzioni passano attraverso narrazioni diverse, altrimenti ripetiamo risposte uguali con pelle differente. Le narrazioni però necessitano di mediatori e visionari generosi, innamorati della realtà, disponibili, pieni di dubbi, di imprecisioni, gentili. Tutte parole che negli ultimi tempi venivano demonizzate, ma che, se recuperate, danno senso all'umanità delle relazioni, smontano il senso della paura e tengono, anche a distanza, un filo di vicinanza molto importante.